Pizzighettone 1500: guerre, scandali, potere

L’evento

Uno scandalo osé scoppiato fra XV e XVI secolo, che coinvolse i vertici politici di Milano, Francia e Venezia: è questo lo spunto da cui prende corpo la trama di un racconto storico intrigante e coinvolgente, ricco di colpi di scena e di somiglianze (spesso inattese) con il presente.

È ciò che propone la narrazione storica intitolata Pizzighettone 1500: guerre, scandali, potere: lo spettacolo che dal 2011 racconta al pubblico passioni, denaro, intrighi, sesso, politica e tradimenti dell’Italia fra tardo Medioevo e Rinascimento.

Ideatore e conduttore dell’iniziativa è Davide, che ha ricostruito l’antico scandalo sessuale grazie a personali ricerche archivistiche e bibliografiche.

In questo evento lo storico propone le vicende del sex affair in una forma comunicativa ispirata al teatro di narrazione e sviluppata lungo percorsi guidàti a tappe.

Ora documentario ora spy story, il racconto di Davide non si limiterà a enumerare cronistorie e biografie. Invece, è un discorso vivace, articolato e coinvolgente su un periodo storico e sull’eredità che ha lasciato: società, economia, usi, arti, tradizioni e curiosità.

Nel suo monologo compaiono le vicende politiche, con il loro immancabile séguito di speranze e delusioni; le personalità più in vista dell’epoca; le questioni maggiormente sentite e dibattute (per esempio, tasse e timori per un futuro incerto). Difficile non ritrovare anche nell’attuale vita quotidiana punti di contatto con questo passato soltanto in apparenza lontano.

La trama

Lo scenario storico in cui si sviluppa la trama di Pizzighettone 1500: guerre, scandali, potere è il Centro-Nord Italia tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento.

Un periodo che vede diversi stati affrontarsi in numerosi conflitti: il Ducato di Milano (capeggiato da Ludovico il Moro), la Repubblica di Venezia, quella fiorentina (al cui servizio opera Niccolò Machiavelli), il Regno di Francia (governato dal re Luigi XII di Valois-Orléans), gli Stati della Chiesa (con papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia), i dominî romagnoli di Caterina Sforza (soprannominata la «Tigre di Forlì», nipote del duca di Milano) e di Cesare Borgia (figlio del papa Alessandro VI, fratello di Lucrezia e noto anche come il Duca Valentino).

Scontri acuitisi anche a causa delle spregiudicate manovre politiche messe in atto da Ludovico il Moro. Nel 1499 la guerra arriva nel cuore del Ducato milanese, territorio strategico per il controllo politico e militare dell’Italia centro-settentrionale.

Nella primavera del 1500 il duca sforzesco è sconfitto e catturato dalle truppe di Luigi XII, che si proclama nuovo sovrano di Milano.

Nel frattempo, la Repubblica di Venezia (alleata del sovrano transalpino) occupa il Cremonese e la Gera d’Adda. Paolo Biglia (ex agente e ambasciatore di Ludovico), scappa dal Ducato ormai sotto controllo francese e si rifugia a Pizzighettone presso suo cognato Giovanni da Casale.

L’amministrazione veneziana si dimostra tutt’altro che ospitale verso Paolo: Fantino Valaresso (provveditore di Pizzighettone) lo mette al bando e dichiara ribelle Giovanni. I due sono costretti a abbandonare il borgo.

È la moglie di Giovanni a diventare la chiave per la loro riscossa. Paradossalmente, grazie a un (presunto o provocato) tradimento coniugale della donna, consumato proprio con Fantino Valaresso.

Sfruttando abilmente legàmi e conoscenze altolocate, nell’estate 1500 i due cognati riescono a far intervenire l’ambasciatore francese a Venezia a portare la liaison tra la moglie di Giovanni e Fantino Valaresso all’attenzione del governo repubblicano.

Così, il provveditore è rimosso dalla carica e sottoposto al giudizio del Senato veneziano. L’ex ufficiale scampa al carcere, ma per chiudere l’incidente diplomatico e lo scandalo la Repubblica è costretta a riabilitare Paolo e Giovanni.

Non soltanto. Proclamandosi leale suddito, Giovanni da Casale si spinge a domandare un «segno di fedeltà» ai magistrati veneziani: pur controvoglia, il Pieno Collegio gli concede l’investitura a cavaliere di San Marco, celebrata l’8 novembre 1500 dal Doge Agostino Barbarigo.

Fantino Valaresso scompare dalla scena politica. Ma non definitivamente: qualche anno più tardi ritorna a ricoprire un ruolo da magistrato e poi di membro di un organo dello stesso Senato di Venezia.

La vicenda

Nell’agosto 1499 un esercito francese inviato dal re Luigi XII di Valois-Orléans (1462-1515) invase il Ducato di Milano, governato da Ludovico Maria Sforza (detto il Moro, 1452-1508).

Il sovrano francese intendeva assicurarsi il controllo di un territorio fondamentale per il predominio sull’intera Penisola italiana. Aveva legittimato l’atto avanzando rivendicazioni dinastiche che avrebbero assegnato la precedenza della successione sul trono milanese ai Valois rispetto agli Sforza.

Grazie agli accordi e alla lega formalizzàti a Blois tra il febbraio e l’aprile dello stesso 1499 Luigi XII si era assicurato l’alleanza della Repubblica di Venezia per le operazioni nella Valpadana. In cambio dell’aiuto veneziano, il sovrano si era impegnato a cedere allo stato veneto tutti i territorî ducali a Est del fiume Adda tra il Po e Lecco (esclusa quest’ultima località).

Condotta da Gian Giacomo Trivulzio (1440-1518) per lo schieramento francese e da Niccolò Orsini da Pitigliano (1442-1510) per quello veneziano, la campagna militare portò rapidamente alla vittoria delle truppe alleate. Nel settembre 1499 lo stesso Ludovico il Moro fu costretto a lasciare Milano.

Fatta occupare la città e proclamatosene nuovo duca (ottobre 1499), Luigi di Valois-Orléans assisté allo sfaldamento della compagine politica costruita dal suo avversario tra la fine degli Anni Settanta e gli Anni Novanta del XV secolo.

Dopo la morte del fratello maggiore, il duca Galeazzo Maria (1444-1476), Ludovico il Moro aveva egemonizzato la corte milanese: aveva ottenuto di far processare e condannare a morte il segretario Francesco Simonetta (detto Cicco, 1410-1480); aveva fatto esautorare la cognata Bona di Savoia (1449-1503); aveva avocato a sé la tutela e l’educazione del nipote, il duca Gian Galeazzo Maria (1469-1494), allontanandolo dal governo.

Già signore de facto di Milano, Ludovico era stato forse coinvolto nella morte del nipote (ottobre 1494), cui aveva fatto immediatamente seguire la propria proclamazione a duca di Milano.

Gli interessi politici di Ludovico il Moro si estendevano ben oltre la valle del Po: nel 1479 era stato nominato duca di Bari dal re di Napoli Ferdinando I d’Aragona (1424-1494); nove anni più tardi aveva ottenuto il controllo sforzesco sulla Repubblica di Genova; nel 1494 aveva combinato il matrimonio della nipote Bianca Maria (1472-1510), sorella di Gian Galeazzo Maria, con il re dei Romani Massimiliano I d’Asburgo (1459-1519).

Proprio alla corte di quest’ultimo sovrano, a Innsbruck, Ludovico Maria Sforza trovò rifugio al termine della sua fuga dallo stato milanese durante l’autunno 1499.

Nel frattempo le roccheforti lombarde difese da guarnigioni sforzesche stavano capitolando una dopo l’altra. Il 14 settembre il comandante del presidio del Castello di Pizzighettone, Leonardo Pirovano, cedette la fortezza alla Repubblica di Venezia dietro pagamento di 4.000 ducati. Come nuovo castellano fu nominato Girolamo Cadapesaro.

Lo stesso accadeva in quasi tutti gli altri territorî e protettorati del casato Sforza. In particolare, nell’Italia centrale, stava progettando una serie di azioni politico-militari Cesare Borgia (detto il Duca Valentino, 1475-1507), figlio del pontefice Alessandro VI (al secolo Rodrigo Llançol de Borja, 1431-1503).

Approfittando della sconfitta di Ludovico il Moro e dell’appoggio del re di Francia (di cui il figlio era luogotenente), nel novembre 1499 il papa dichiarò decaduti dai loro beneficia i feudatarî di Camerino, Faenza, Forlì, Imola, Pesaro e Urbino, lasciando mano libera a Cesare perché se ne impadronisse.

Il mese successivo, dopo aver lasciato Milano, la spedizione del Duca Valentino giunse alle porte di Forlì, governata da una nipote di Ludovico il Moro, Caterina Sforza (1463 c.a-1509).

Vedova di Girolamo Riario (1443-1488), che aveva ottenuto la signoria di Imola e di Forlì grazie a suo zio, il pontefice Sisto title="Quarto">IV (nato Francesco della Rovere, 1414-1484), negli anni precedenti Caterina aveva fatto fronte con vigorosa determinazione a una violenta congiura (culminata con la morte del marito nel 1488) e a un tentativo d’invasione da parte della Repubblica di Venezia nel 1498.

La discendente di casa Sforza dimostrò la stessa determinazione nel sostenere l’assedio portatole dalle truppe di Cesare Borgia. Assediata con i suoi fedelissimi nella Rocca del Ravaldino, Caterina respinse per tre settimane gli assalti degli avversarî. La sua energica e caparbia difesa le fece guadagnare una diffusa ammirazione in tutta la Penisola: ciò le valse il soprannome di Tigre di Forlì nonché canti e filastrocche a lei dedicate.

Nel gennaio 1500 la roccaforte forlivese fu espugnata e Caterina, catturata con le armi in pugno, fu condotta prigioniera a Roma, dove fu rinchiusa nel Castel Sant’Angelo. Anche l’ultima resistenza sforzesca in Romagna era stata debellata.

Se la nipote aveva esaurito la sua azione militare, lo zio credeva di aver recuperato le forze e il sostegno necessarî per riconquistare il dominio perduto. Grazie all’appoggio di Massimiliano I, Ludovico Maria Sforza aveva raccolto un’armata di mercenarî svizzeri da affiancare ai milites che gli erano ancóra fedeli.

Contando sulla lontananza da Milano di Luigi XII, di Cesare Borgia e del grosso delle truppe francesi, Ludovico il Moro fece ritorno in Lombardia alla testa del suo esercito, riprendendo il controllo della stessa Milano nel febbraio 1500.

Fomentate dai partigiani sforzeschi, in varie zone del Ducato milanese si verificarono sollevazioni contro i presidî francesi e veneziani. A Pizzighettone la sommossa fu capeggiata dai membri della famiglia Grumello: nel mese di febbraio i rivoltosi conquistarono la Rocchetta del Ponte, presso la borgata di Gera (occupata in precedenza dai soldati transalpini), bloccando il presidio veneziano ad asserragliarsi nel Castello.

La fortuna di Ludovico il Moro era però destinata a mutare rapidamente. L’8 aprile le sue truppe mercenarie e quelle al servizio francese si rifiutarono di combattere le une contro le altre, costringendo il duca sforzesco a rifugiarsi dietro le mura di Novara. I comandanti francesi negoziarono un accordo che avrebbe consentito il libero ritorno déi militari svizzeri alle loro terre, purché lo Sforza si fósse arreso.

Tradito da un soldato del cantone di Uri, Ludovico il Moro fu intercettato e catturato il 10 aprile mentre cercava di abbandonare Novara fra le truppe elvetiche, travestito da mercenario. Fu successivamente tradotto ad Asti, Susa e Lione, quindi detenuto néi castelli di Lys-Saint-Georges e di Loches.

Nel frattempo, anche le azioni déi partigiani sforzeschi andavano esaurendosi. Le posizioni da loro conquistate erano state riprese dalle truppe francesi e veneziane. Anche a Pizzighettone la Serenissima Repubblica aveva ripreso il controllo della situazione: i miliziani fedeli a Ludovico erano stati scacciàti, la Rocchetta presso il fiume Adda era stata espugnata e quindi demolita.

La definitiva caduta di Ludovico il Moro aveva portato alla fuga di parecchî personaggî organici o legàti all’amministrazione sforzesca: soprattutto famiglî, spie e faccendieri che in precedenza avevano agito contro il Regno di Francia o la Repubblica di Venezia e che ora temevano rappresaglie e vendette déi nuovi dominatori.

Uno di questi era Paolo Biglia (?-1504): già agente di Ludovico presso Gian Galeazzo Maria Sforza, ambasciatore milanese a Roma e cancelliere della Cancelleria Segreta, era stato impiegato dall’ormai spodestato duca di Milano in varie missioni diplomatiche fra Italia e Turchia. Pur non comparendo nelle liste di proscrizione redatte dal governo francese di Milano, l’ex ambasciatore preferì riparare a Pizzighettone, dove trovò ospitalità presso il cognato Giovanni da Casale.

La presenza di un simile personaggio nella roccaforte cremonese non poteva passare inosservata ai governanti veneziani: tanto più che quasi tutte le azioni di Paolo Biglia del biennio precedente erano state compiute in opposizione agli interessi della Repubblica di San Marco.

Incaricato di controllare questo tipo di situazioni era il provveditore. A Pizzighettone questo ufficio era ricoperto da Fantino Valaresso (?-1528), nominato alla fine del settembre 1499. Figlio di «sier Batista», apparteneva a una famiglia patrizia di Venezia nella cui storia comparivano personalità come vescovi e provveditori (sia dello Stato da Tera sia di quello da Mar).

Nell’aprile 1500, sùbito dopo la cattura di Ludovico il Moro a Novara, Fantino Valaresso aveva ricevuto la resa a Pizzighettone del cardinale Ascanio Maria Sforza Visconti (1455-1505), fratello del duca deposto. Insieme al prelato si erano consegnàti anche diversi ecclesiastici delle famiglie lombarde Landriani, Crivelli e Visconti, parte del séguito del cardinale.

Il 20 luglio il governo veneziano apprese da Fantino Valaresso la notizia di «certi rebelli, tra i qual uno Zuan da Casal» a Pizzighettone. Il riferimento riguardava un provvedimento di bando: il magistrato lo aveva emesso sia contro Paolo Biglia sia contro Giovanni da Casale, che era stato proclamato ribelle della Repubblica.

La missiva era stata probabilmente inviata sei giorni prima e fu riassunta da Marin Sanudo (1466-1536). Lo storico e politico veneziano a quell’epoca era uno déi cinque Savi agli Ordini: in questa veste prendeva parte alle sedute del Pieno Collegio e del Collegio dei Savi, che preparava e dirigeva i lavori del Consiglio dei Pregadi (il Senato di Venezia).

Il 25 luglio Accurse Maynier (1450 c.a-1536 c.a), oratore del re di Francia nella città lagunare, espose al Collegio un reclamo proprio contro «Fantin Valaresso, provedador», che «per amor di la dona» aveva «bandito Paulo Bilia».

La donna in questione era la moglie dello stesso Giovanni da Casale, cui Fantino Valaresso avrebbe rivolto le proprie avances, a scapito del marito e del cognato.

La denuncia del diplomatico era grave: il magistrato avrebbe bandito i due uomini non per salvaguardare la Repubblica, ma per sbarazzarsi di un ostacolo alle sue relazioni amorose. Accusa che si aggravava considerando la posizione dell’ufficiale veneziano nella delicata situazione politica di Pizzighettone e del Cremonese, oltre al coinvolgimento di un suddito di uno stato alleato.

Un abuso del genere non poteva essere tollerato. Il Collegio rispose all’ambasciatore che sarebbero state effettuate indagini sul caso e diede mandato per accertare i fatti.

I primi a essere ascoltàti sulla vicenda furono gli oratori della comunità pizzighettonese che si trovavano a Venezia. Poi, il 14 agosto, fu la volta di un messaggero del provveditore stesso, appena giunto in città. Interrogato, il corriere ammise che Fantino Valaresso «dava fastidio» proprio «a la moier di Zuan da Casal». A questo punto il caso fu rimesso all’Avogadoria de Comùn, l’istituzione preposta per l’attività istruttoria e per le funzioni di pubblica accusa.

Dieci giorni dopo l’ambasciatore francese si ripresentò al Collegio ribadendo le affermazioni del mese precedente: «sier Fantim Valaresso, provedador di Pizegatom, dava fastidio a la moglie de uno citadim de lì». Entro pochi giorni le indagini si conclusero rivelando una situazione critica per il buon ordine dello stato veneziano.

Così, il 2 settembre 1500, «di hordine di la Signoria», l’Avogadoria de Comùn spiccò un mandato affinché il magistrato rispondesse a Venezia del suo comportamento. Quello stesso mese Fantino Valaresso fu costretto a lasciare il suo incarico a Pizzighettone e raggiunse la città lagunare il 19 settembre.

Il giorno del giudizio arrivò il 3 ottobre. L’ex provveditore fu portato dinnanzi al Consiglio dei Pregadi per raccontare la sua versione déi fatti. Secondo il sunto della deposizione fornito da Marin Sanudo egli «era inamorato in una moglie di Zuan da Casal», che «per esso provedador fo publichato rebello»: «qui exagerò la cossa, tamen non intervene sforzo alcum», affermando che la signora era consenziente.

Il voto che seguì l’audizione decise la sorte dell’ex magistrato. Un primo ballottaggio mostrò che larga parte déi senatori erano contrarî o indifferenti al suo arresto. I numeri, tuttavia, non bastavano per assolverlo e si passò a una seconda votazione: questa volta la maggioranza déi «pregadi» si espresse a suo a favore. Sebbene destituito del suo incarico, Fantino Valaresso era scampato a pene più gravi.

Il giorno seguente l’esito del giudizio fu comunicato all’oratore francese, che si dichiarò soddisfatto. Il voto non aveva però chiuso la faccenda: restava sospesa la situazione di Giovanni da Casale e di Paolo Biglia, contro cui rimanevano in vigore i provvedimenti di bando e di confisca déi beni.

In effetti, il 15 ottobre si ripresentò al Collegio l’ambasciatore di Luigi XII, sollecitando affinché la questione relativa a Paolo fósse risolta positivamente.

La chiusura dell’incidente diplomatico e dello scandalo passava anche attraverso la riabilitazione déi due cognati. Così, il 17 ottobre, quando l’ambasciatore ritornò dinnanzi al Collegio, gli fu risposto che «per amor suo» Giovanni da Casale sarebbe stato reintegrato nelle sue proprietà. Con una raccomandazione, però: «vardasse come il fesse, perché suo cugnado, Paulo Bilia, era tutto di Lodovico».

Queste parole si riferivano ai trascorsi dell’ex agente sforzesco. Evidentemente, l’oratore e i suoi contatti presso la corte di Luigi XII ignoravano il passato di Paolo perché il diplomatico rispose che «volea scriver prima a Milam», ritenendosi però soddisfatto dell’esito della questione.

Il 7 novembre l’ambasciatore si presentò novamente al Pieno Collegio, riferendo che Giovanni da Casale era giunto a Venezia perché dichiarasse la sua fedeltà alla Repubblica. Fatto entrare in sala, il cremonese prestò giuramento e volle anche baciare i piedi del doge Agostino Barbarigo (1419-1501). Poi, domandò di essere congedato con «qualche segno di fedeltà»: gli fu concesso il cavalierato di San Marco.

La cerimonia d’investitura avvenne il giorno seguente, presieduta dal doge e alla presenza di alcune personalità veneziane, déi nunzi di Crema e di molti «milanesi» (probabilmente, lombardi sudditi di Luigi di Valois-Orléans). Marin Sanudo descrisse la scena in questo modo: «datoli l’insegna di San Marcho, dicendo el principe, con la spada tochandolo: Esto miles et fidelis Sancti Marci». Poi, fra squilli di trombe, il neocavaliere fu accompagnato al proprio alloggio in città.

A questo punto l’incidente creato dal sex affair di Pizzighettone poteva dirsi chiuso. Paolo e Giovanni avevano agito in modo abile nel costruire la loro riscossa e nel barcamenarsi fra i meandri dello scandalo.

I due cognati si erano avvantaggiàti di conoscenze ben inserite nel sistema di potere: contatti in grado di far intervenire celermente la diplomazia del regime francese senza che quest’ultimo scoprisse i trascorsi sforzeschi di Paolo Biglia, che da soli avrebbero potuto compromettere le azioni déi due lombardi.

I pochi giorni del luglio 1500 intercorsi tra l’arrivo a Venezia della missiva del provveditore e l’intervento di Accurse Maynier presso il Consiglio dimostrano che Paolo e Giovanni erano stati in grado di attuare rapidamente contromisure al provvedimento di bando.

Se si esclude una trappola costruita con la collaborazione più o meno consapevole della moglie di Giovanni, resta l’ipòtesi che i due avessero vòlto a loro vantaggio un debole di Fantino Valaresso néi confronti della donna, o una liaison amorosa già esistente.

Non si dimostrarono felici per Paolo Biglia le rivelazioni del Collegio veneziano all’ambasciatore francese, riguardanti il suo passato di agente sforzesco. Dopo lo scandalo l’ex consigliere di Ludovico il Moro lasciò sia Pizzighettone sia il Ducato di Milano. Non abbandonò le sue attività diplomatiche e di intelligence: nel 1502 era in contatto con Caterina Sforza, che nel frattempo era stata liberata dal Castel Sant’Angelo e si trovava a Bologna. Paolo morì nel 1504, cinque anni prima della Tigre di Forlì.

Anche su Giovanni da Casale la Repubblica di Venezia ebbe déi sospetti. Nel marzo 1509, allo scoppio della Guerra delle Lega di Cambrai (che vide la Repubblica di San Marco opposta al Regno di Francia), il cavaliere fu deportato da Cremona a Venezia insieme ad altri quarantaquattro ostaggî: probabilmente, trasferiti nella città lagunare per evitare che favorissero i nemici francesi. Fino agli Anni Venti del XVI secolo Giovanni era ancóra in vita.

Sempre nel 1509 Fantino Valaresso tornò a ricoprire un incarico amministrativo, come uno déi Deputati ai Dodici sopra i Sestieri. Prima del 1515 fu eletto fra i Pregadi de Zonta: un organo di quello stesso Senato che l’aveva giudicato nel 1500. Morì nel 1528, secondo la testimonianza di Marin Sanudo.

Della moglie di Giovanni da Casale neppure il nome è noto.

Info

Luogo:
Pizzighettone (Cremona, Lombardia), cerchia muraria (Piazza d’Armi)
Milano (Lombardia), Castello Sforzesco (Piazza Castello)

Date:
2 luglio, 13 agosto, 24 settembre, 29 e 31 ottobre e 5 novembre 2011, 5 maggio, 4 agosto e 2 novembre 2012, 6 luglio 2013, 26 luglio 2014, 7 novembre 2015, 20 agosto e 5 novembre 2016, 19 agosto 2017, 27 ottobre 2018, 10 agosto 2019 e 20 agosto 2022 (a Pizzighettone)
26 luglio 2018 (a Milano)

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Note:
gli eventi sono stati ideàti e condotti da Davide, che detiene la paternità creativa dello spettacolo e tutti i relativi diritti; i contenuti da lui illustràti al pubblico durante le manifestazioni sono basàti sugli esiti delle sue ricerche in àmbito storico; Pizzighettone 1500: guerre, scandali, potere non è una rievocazione storica con personaggî in costume e animali

© Davide: tutti i diritti riservàti – Pubblicato il 29 luglio 2022 – Aggiornato al 26 giugno 2024